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Ma questo era prima…

Prima pensavo di essere stanca e di non avere mai tempo. E allora mi lamentavo (ma quand’è che la smetti di lamentarti? non vedi che non ti sopporta più nessuno?). Protestavo perché non ce la facevo, perché la scrittura si arenava, perché le giornate si sarebbero dovuto allungare (ma se le giornate si allungano, poi come la metti con la stanchezza?) Era tutta una lagna. Un “uffa” sbattuto in faccia a chiunque. Una noia…

Ma questo era prima. Prima di vivere due vite parallele. Prima di passare il tempo in aeroporto. Prima di cercare in tutta fretta il bottone per passare dal francese all’italiano perdendomi sempre qualcosa nel cambio…

Questo era prima. Quando di tempo, in fondo, ne avevo tanto. E anche di energia. Perché ora anche quella se ne è andata. E faccio fatica anche solo a sorridere. Anche i sorrisi vanno di fretta oggi. E pezzi interi della mia vita si frantumano…

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Quello “strano ideologico modo di comunicare”…

Caro Monsignor Galantino,

Mi rivolgo a lei dopo aver letto l’intervista che ha rilasciato il 15 agosto al Corriere della Sera. Colpita dal coraggio e dalla determinazione con cui critica la Pubblica amministrazione, le mafie e la cultura dell’illecito. Ma anche perplessa dal fatto che, quando affronta alcuni temi eticamente sensibili, non sembra farlo con lo stesso coraggio e con la stessa determinazione. Sono perfettamente d’accordo con lei quando spiega che le riforme, troppo spesso, si bloccano per l’ostilità di singole lobby. Così come sono d’accordo con lei quando dice che, anche in Occidente, c’è la necessità di un “nuovo battesimo sociale capace di generare speranza nel paese”. Perché allora, quando comincia a parlare di famiglia, di fecondazione artificiale e di omosessualità, si lascia anche lei trasportare da quello “strano ideologico modo di comunicare” che lei stesso denuncia? Perché su questi temi sembra così difficile affrontare un dialogo costruttivo e scevro da luoghi comuni?

Ma non voglio criticare tanto per criticare. Se le scrivo, è per mostrarle punto per punto per quale motivo sono rimasta perplessa e, a tratti, sconfortata. Commentando il tragico scambio di embrioni avvenuto al Pertini, afferma che “impressiona che si sia dovuti arrivare a questo incidente per vedere i rischi che si corrono quando si riduce un uomo a una macchina e si scambia il legittimo desiderio di avere un figlio per un diritto assoluto”. Mi scusi, ma che cosa c’entra l’errore umano con i rischi che si corrono quando si riduce un uomo a una macchina? Certo, al Pertini è stato commesso un tragico errore. Ma quest’errore è stato commesso durante una normalissima procedura di fecondazione omologa. Ed è stato “solo” l’errore umano a far sì che nel corpo di una donna si ritrovasse l’embrione di un’altra coppia, senza che nessuno dei diretti interessati avesse minimante immaginato di ricorrere ad un dono di gameti. La tragedia, d’altronde, nasce proprio qui: se l’embrione fosse stato donato, nessuno si sarebbe sognato di rivendicarne la “proprietà”. Un tragico errore, quindi. Che in quanto tale, però, non dimostra assolutamente nulla. A meno di non voler argomentare che, siccome è sempre possibile trovarsi di fronte all’errore umano, allora si dovrebbe anche smettere di fare operazioni chirurgiche rischiose. E chi muore sotto i bisturi per errore di un chirurgo? È forse perché l’essere umano è stato ridotto a una macchina oppure perché, tragicamente, l’uomo talvolta sbaglia?

Ma andiamo avanti. Perché dopo quest’affermazione, quella successiva è almeno altrettanto problematica. Visto che chi difende la possibilità di praticare la fecondazione eterologa non pretende affatto difendere questa tecnica in nome di un “diritto assoluto ad avere un figlio” come dice lei. Come già nel caso della fecondazione omologa, l’argomento è quello del “legittimo desiderio di avere un figlio”. Allora le chiedo: perché questo desiderio sarebbe legittimo nel momento in cui la fecondazione artificiale è omologa e non lo sarebbe più nel momento in cui, di fronte a casi di sterilità per cui la fecondazione omologa non basta, si farebbe ricorso ad una fecondazione eterologa? Se l’argomento fosse quello della “naturalità della procreazione”, allora non varrebbe nemmeno la pena di ricorrere ad una fecondazione omologa, visto che anche l’omologa è una “fecondazione artificiale” (e quindi, per definizione, non naturale). Ma non è questo il punto, ne sono certa. Visto che è lei stesso a riconoscere – come fanno d’altronde tutti coloro che si battono affinché non si discrimini, tra coppie sterili, quelle che possono superare la sterilità ricorrendo ad un’omologa e quelle che invece hanno bisogno di ricorrere ad una eterologa – che non si può non tenere conto del fatto che “tra una donna che porta a termine una gestazione e il figlio che ha in grembo, si creano emozioni comuni, empatie non solo fisiche”. Lei stesso, quindi, abbandona l’argomento della “naturalità della procreazione” per riconoscere l’importanza dei legami che una donna stabilisce con l’embrione che porta in grembo, anche in assenza di legami genetici. Basterebbe allora leggere gli argomenti di chi difende la possibilità di dare accesso alle coppie sterili alla fecondazione eterologa per rendersi conto che è proprio questo che viene sostenuto: la maternità non coincide con il DNA, è qualcosa di molto più complesso e di molto meno riduttivo; e fatta di emozioni comuni e di empatia; di desiderio e di amore.

Ma forse il passaggio che più mi ha colpito nella sua intervista è quello successivo. Quando, dopo aver a giusto titolo ricordato i problemi legati all’individualismo contemporaneo, decide di dare un esempio dell’ideologia del “tutto è possibile”. “Oggi una famiglia composta da padre, madre e figli deve quasi chiedere scusa di esistere e viene descritta dai media come l’unico luogo dove avvengono guai e disastri. Di contro, la rappresentazione delle famiglie omosessuali offre solo felicità”. Mi scusi Monsignor Galantino, ma di quali media sta parlando? Dove ha letto che le famiglie composte di padre, madre e figli devono quasi chiedere scusa di esistere? Chi descrive queste famiglie come unici luoghi di disastri? È sicuro che affermare che anche nelle famiglie tradizionali esistono dolore e infelicità è un modo di dire che tutte le famiglie tradizioni sono luoghi di sofferenza? È sicuro che scrivere che non necessariamente si soffre quando si cresce in una famiglia omosessuale significa dire che le famiglie omosessuali offrono solo felicità? Perché se così fosse – mi scusi se la provoco – allora sarebbe lei a fare una grande confusione e a cadere in una forma di sofisma che ha poco a che vedere con la verità che lei difende.

Per difendere l’importanza delle famiglie e lottare contro le derive dell’individualismo egoistico – battaglia che condivido e cerco anch’io di portare avanti – forse sarebbe opportuno confrontarsi maggiormente con la realtà. Esistono famiglie monoparentali. Esistono famiglie omosessuali. Esistono famiglie con figli e famiglie senza figli. Ognuno cerca di convivere con le difficoltà dell’esistenza come può. Non perché tutto si equivalga o si voglia giustificare tutto. Solo perché capita che ci sia sofferenza nelle famiglie tradizionali, così come capita che invece non ce ne sia. Capita che sia sofferenza nelle famiglie omosessuali, così come capita che non ce ne sia. Capita che i figli arrivino subito e senza problemi. Ma capita anche che i figli non arrivino mai, nonostante il grande desiderio di averli. Non pensa che sia arrivato il momento anche per la Chiesa di ammetterlo?

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L’amore è tutto #9

L’amore non giustifica tutto. Meno che mai il controllo o la gelosia ossessiva. Come quando si pensa che sia del tutto legittimo cercare di sapere quello che l’altra persona fa quando non è con noi: chi incontra, dove va, come si comporta, che cosa dice. Talmente legittimo che, quando l’altro tace o si fa schivo, ci si comincia a fissare. Si immagina che ci sia qualcosa che non vada. Si pensa che lui ci stia mentendo. Ci si convince che, prima o poi, succederà l’irreparabile. 

E allora è tutto un «cerca» e «fruga» generale. Mail, sms, Facebook, Twitter, WhatsApp. Fino alla paranoia. Senza rendersi conto che, in questo modo, siamo noi i primi a mentire e a fare in modo che le cose vadano male, violando l’intimità altrui e non rispettando i suoi spazi. Come se il semplice fatto di amare una persona ci desse il diritto di agire come mai vorremmo che l’altro agisse nei nostri confronti. 

Come se fosse normale abbattere le barriere tra l’«io» e il «tu» per diventare «una cosa sola» – quel mito romantico della fusione che ci affascinava tanto quando eravamo bambini e che, però, è sempre e solo una prigione soffocante […] 

Dalla mia rubrica su Vanity Fair. Ecco il link, anche per continuare a leggere:

http://www.vanityfair.it/news/italia/14/04/03/michela-marzano-gelosia-possesso-amore

Twitter: @MichelaMarzano

 

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L’amore è tutto #8

Si può conservare un amore e perdonare il tradimento? “Il lavoro del perdono è un lavoro che esige tempo”, scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro Non è più come prima. “La memoria dell’offesa viene attraversata e riattraversata al fine di raggiungere un punto di oblio che rende possibile un nuovo inizio”. Quindi, sì. Per Recalcati, il perdono è non solo possibile, ma anche necessario. Anche se poi, per lo psicanalista, questo percorso sarebbe oggi molto raro, a differenza del passato quando si perdonava quasi sempre, soprattutto quando a doverlo fare erano le nostre nonne. Mentre oggi, all’epoca dell’effimero e del cinismo, sarebbero pochi a restare indenni di fronte alla “schiavitù del nuovo, del sostituto, dell’arbitrio scambiato per libertà di scelta”. Ma in che senso il perdono dovrebbe opporsi alla schiavitù del nuovo? Perché perdonare? Perché farlo sempre?

Ho già più volte parlato dell’importanza e della fragilità della fiducia nell’amore. Ossia di come l’amore, per accadere, abbia bisogno di abbandono e di vulnerabilità. Anche se poi, inevitabilmente, il fatto di abbandonarsi al benvolere altrui rende sempre possibile il tradimento. Tanto più che l’essere umano, per definizione, tradisce ed è tradito. Anche semplicemente perché il desiderio sfugge al controllo, e accade a chiunque di sbagliare, di scivolare, di far male, di abbandonare. Nonostante l’amore. Nonostante la condivisione. Nonostante la pazienza.

Ho anche spiegato, però, che esiste un tradimento che non può essere perdonato. E che è “imprescrittibile”, come direbbe il filosofo francese Vladimir Jankélévitch, senza che per questo si sia schiavi del nuovo. Ossia quel tradimento profondo e radicale che consiste a far credere all’altra persona che niente sia cambiato mentre, in realtà, tutto è diverso. Quello che porta a ripetere gli stessi gesti o a pronunciare le stesse frasi. Anche se vuote di senso. Anche se prive di sostanza. Come “quegli sposi miserabili che rimangono, lamentandosi dell’amore ormai da tempo svanito nel loro matrimonio” di cui parla Sören Kierkegaard. Quale gioia può esserci d’altronde nel restare all’interno del perimetro di quest’amore tradito? Quale libertà di essere se stessi può sopravvivere, quando l’altro non ha il coraggio dell’autenticità?

Non mi piacciono gli elogi del passato. Quando il sacrificio e la costanza erano considerati i pilastri del vivere-insieme. Quando si restava insieme perché era così che si doveva fare anche quando ci si sopportava appena. E questo, non perché io sia affascinata dalla mancanza di punti di riferimento o dal trionfo del narcisismo. Anzi. Sono profondamente convinta che uno dei problemi dell’epoca contemporanea sia proprio l’incapacità di uscire dal proprio mondo interiore per rischiare la condivisione e l’apertura. Ma credo anche che la costanza e il sacrificio del passato siano in parte responsabili di tanta sofferenza che si vede oggi. Tutto quel malessere che si prova di fronte alle menzogne e all’apparire. Tutti quei sintomi che gli adolescenti ci buttano addosso, perché sanno bene che, dietro la facciata della rispettabilità, l’“io” soffoca e muore.

Certo, non si tratta di cedere alle sirene del “nuovo”, acculando gli oggetti d’amore prima di sostituirli e buttarli via. Anche perché nell’accumulazione, di amore, ce n’è molto poco. Si tratta solo di capire che l’amore non è perfetto, che l’altro può talvolta non essere all’altezza, che alcune volte può sbagliare e farci male. Ma che tutto questo, con il tradimento imprescrittibile, non c’entra niente. E che, in questi casi, il “non-perdono” del vero tradimento non è un problema. Anzi. È talvolta l’unico modo che troviamo per difendere la nostra soggettività dal falso idolo delle apparenze.

Dalla mia rubrica su Vanity Fair. Ecco il link, anche per ritrovare le altre puntate:

http://www.vanityfair.it/news/italia/14/03/26/michela-marzano-perdono-tradimento

Twitter: @MichelaMarzano

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L’amore è tutto #7

E poi c’è la fiducia. Quando si parla di amore, infatti, prima o poi la fiducia si impone. Come scrive il filosofo Theodor Adorno: “Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”. Il significato della fiducia è tutto qui, nell’abbandonarsi alla benevolenza di chi dice di amarci, sperando che l’altro non approfitti mai troppo della nostra vulnerabilità e del nostro amore.

Certo, ogni volta che si parla di fiducia si parla anche di “scommessa”. E quando si scommette, si può anche perdere. Soprattutto in amore. Visto che la fiducia, per definizione, va di pari passo con il tradimento. Chi sono d’altronde le persone che ci possono tradire se non proprio quelle di cui ci si fida di più? Se non mi fido di qualcuno, il problema è eliminato alla radice. Chi non ha la mia fiducia potrà deludermi, ma non potrà mai tradirmi veramente.

La fiducia e il tradimento, da questo punto di vista, sono entrambi una manifestazione della natura umana; sono entrambi espressione del bisogno che ognuno di noi ha di fidarsi, ma al tempo stesso della necessità di non sentirsi prigioniero di relazioni che, col tempo, possono anche mutare. Ma si può veramente amare dopo un tradimento? Che cosa resta dell’amore quando non c’è più fiducia?

L’amore è sempre impastato di dubbi e incomprensioni. E sperare di amare senza mai essere feriti o credere che ogni parola data sia un impegno che lega per l’eternità significa illudersi. Oppure confondere tra loro due concetti ben diversi, quello di “fede” e quello di “fiducia”: non si può immaginare di “credere in una persona” esattamente come si “crede in Dio”, aspettandosi che l’altro sia sempre e solo affidabile. Sempre e solo costante. Sempre e solo perfetto. In realtà, noi esseri umani siamo tutti in balia di un desiderio in parte opaco in parte contraddittorio; un desiderio che, nonostante ci si sforzi tanto di renderlo trasparente e costante, sfugge sempre al controllo. Anche semplicemente perché non esiste alcune fortezza interiore che possa proteggerci dagli smarrimenti o dai fallimenti.

Fidarsi, condividere, essere abbandonati. Ecco i “legami pericolosi” che l’amore intrattiene da sempre con la fiducia. Nonostante non ci sia amore senza l’implicita promessa di esserci e di ascoltare, anche quando sarebbe più facile tapparsi le orecchie e non lasciarsi invadere da tutto quello che l’altro ci butta addosso. Prima di capire che anche l’amore più grande può essere infedele. E che, in fondo, non importa. In fondo, va bene cosi. Anche se la cosa ci sembra insopportabile.

Io ci ho messo quasi quarant’anni ad accettarlo. Dopo aver fatto il lutto di un grande amore perso. Dopo aver imparato a “tenermi su da sola”, nonostante l’amore ci obblighi poi sempre a “lasciarci andare” all’altro. Dopo aver imparato a fidarmi di nuovo di lui e delle sue mancanze. Dopo aver capito che l’unico tradimento che non si può perdonare è quando l’altro continua a farci credere che niente sia cambiato, mentre tutto è differente. In quel caso, non è in gioco l’abbandono. Ma la credibilità e l’autenticità. Che sono gli ingredienti non solo della fiducia, ma anche dell’amore.

L’essenza dell’amore è la libertà. Libertà di sbagliare e di farsi male. Libertà di rompere tutto e di ricominciare. Libertà di aver paura che tutto finisca, di fare di tutto perché non accada, di alzarsi il mattino sperando di ricevere qualcosa, di accettare di non ricevere niente. Mille e mille volte. Sempre di nuovo. Per sempre.

 

Dalla mia rubrica su Vanity Fair del 12 marzo

Twitter: @MichelaMarzano

 

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Fecondazione eterologa, maternità e paternità: il provincialismo culturale dell’Italia

Con la decisione presa dalla Consulta sulla fecondazione eterologa non si potrà più impedire l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita a coloro che, per avere figli, hanno bisogno di ricorrere ad un dono di gameti (ovuli o sperma), e non si potranno quindi più discriminare alcune coppie sterili. Perché d’altronde focalizzarsi sui legami genetici esistenti o meno tra genitori e figli senza accettare l’evidenza del fatto che non è certo il patrimonio genetico che rende una donna “madre” o un uomo “padre”?

Come diceva lo scrittore francese Marcel Pagnol, quando un bimbo nasce, pesa tre o quattro chili. Poi cresce, e mette su i “chili amore” dei propri “parents”, termine che in francese designa i “genitori sociali”, da non confondere con la parola “geniteurs” che indica invece i “genitori biologici”. Ancora una volta, però, l’Italia è vittima di un provincialismo culturale che impedisce a molti di capire che la genetica non potrà mai spiegare la complessità dei legami familiari, e che le questioni “eticamente sensibili” dovrebbero essere affrontate con rigore e lucidità. Ci si immagina che rendere possibile l’inseminazione eterologa significhi trasformare la maternità e la paternità in una sorta di marketing con compravendita di gameti. Si fantastica che il dono di gameti possa introdurre in una coppia il “fantasma dell’adulterio”. Si invoca il primato dell’interesse dei bambini rispetto a quelli degli adulti, ricordando il diritto dei figli a conoscere le proprie origini. Nessuno di questi argomenti, però, è decisivo. Anzi. Basta analizzarli con serenità – guardando anche come gli altri paesi europei hanno affrontato la questione della fecondazione eterologa – per rendersi conto della loro inconsistenza. Nel momento in cui si organizza il dono di gameti sulla base dei principi di gratuità e di anonimato, come accade ad esempio in Francia già dal 1994, vengono meno molti pericoli: non è la coppia che sceglie i donatori, ma i medici, che decidono sulla base di criteri strettamente sanitari; i donatori non vengono mai remunerati per il dono che fanno e non acquisiscono alcuna relazione giuridica parentale con i bambini; il dono è solo “dono di materiale genetico”, e non ha né “volto”, né “nome”. Per quanto riguarda poi la questione delle origini, basterebbe ricordare la sentenza del 18 novembre 2013 della Corte Costituzionale, in cui si spiega come permettere ad un figlio di conoscere le proprie origini significhi permettergli di “accedere alla propria storia parentale”. Ma quando si parla di storia, non si parla certo di “codice genetico”, a meno di immaginare che il codice genetico ci racconti la storia dei nostri genitori. Quella storia che li ha portati a desideraci o meno, a volerci crescere e darci o meno affetto, a trasmetterci o meno valori e principi. Il caso dei bambini adottati, in questo senso, non ha niente a che vedere con quello dei bambini nati grazie ad un’inseminazione eterologa. Nell’adozione, c’è sempre la storia di un abbandono. Storia cui è sicuramente importante avere accesso, anche solo per poter fare il lutto di quest’abbandono. Ma quale abbandono ci sarebbe nel caso di chi è nato grazie ad un dono di gameti? La storia parentale, in questo caso, non è forse quella di chi, sterile, desiderava a tal punto avere un figlio che è ricorso ad un dono di gameti?

Chi si oppone con accanimento alla fecondazione eterologa forse dimentica (o fa finta di dimenticare) che non c’è bisogno di ricorrere alle tecniche procreative per trattare i figli come “oggetti” a propria disposizione. Basta desiderare un figlio per colmare un vuoto oppure perché i propri sogni e i propri desideri possano un giorno realizzarsi, per trasformare i figli in “cose”. E lo stesso vale per tante altre motivazioni che spingono ad avere un figlio, che si tratti del conformismo o del desiderio di avere una discendenza. Ma questo, appunto, vale sempre, non solo nel caso in cui si ricorra ad una fecondazione eterologa.

Diventare genitori è sempre complesso: si tratta di accogliere un’altra vita riconoscendola come “altro” rispetto a sé; significa aiutare a crescere chi dipende in tutto e per tutto da noi; significa amare incondizionatamente e senza ricatti. Poco importa, poi, se ci siano stati ostacoli o incidenti di percorso o se, per far nascere un figlio, ci sia stato bisogno di ricorrere ad un dono di gameti. Chi può anche solo immaginare che avere lo stesso patrimonio genetico dei propri genitori metta al riparo dalle difficoltà della vita?

Articolo pubblicato ne La Repubblica di giovedì 10 aprile 2014

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L’amore è tutto? #6

“Ma che cos’è questa benedetta condivisione di cui parli sempre?” La mia amica del cuore non ne può più, e allora sbotta. Già sta facendo lo sforzo di leggermi ogni settimana, ma ora questa storia della condivisione non le va proprio giù. Perché la condivisione le sembra la sorellina povera della passione. Quella un po’ triste e un po’ monotona di cui non si vorrebbe mai sentir parlare, soprattutto quando si cresce con l’idea che l’amore sia una forza dirompente che non conosce né argini né mediazioni. Quell’energia che dovrebbe permettere di superare ogni ostacolo senza mai impantanarsi nella banalità della vita di tutti i giorni…

Eppure come si potrebbe amare senza condividere, quando torni a casa la sera e sei talmente stanca che non hai nemmeno più la forza di parlare? Quando lui non ha fatto la spesa. Si è dimenticato di pagare le bollette. Ti ascolta distratto perché anche lui ha avuto una giornata impegnativa e ha altro cui pensare.

La condivisione non fa sognare nessuno. Ma l’amore ne è impastato. Quando sai che qualunque cosa accada, “lui” o “lei” ti sono vicini. A loro modo, certo. Che non è mai esattamente come si vorrebbe. Perché “lei” non sente quello che senti tu. Perché “lui” non capisce quello che vuoi quando gli dici che è il tuo angelo custode. Ma ci sono. Ci sono e, in fondo, sono gli unici ad amarci così come siamo. Anche quando non possiamo evitare di deluderli. Anche solo per avere la conferma del loro amore. Ecco perché il famoso “ti amo” dovrebbe forse essere sostituito da un ben più sgrammaticato “io amo con te”. Insistendo proprio sul “con”, quella preposizione semplice che talvolta sembra inutile. Magari scrivendo il “con” in lettere maiuscole, un po’ come quando su Twitter o su Facebook si vuole attirare l’attenzione e uscire dal coro delle voci sussurrate.

È quel semplice “con” che fa tutta la differenza. Visto che nell’amore è “con” l’altro che si cerca di attraversare il vuoto che ci si porta dentro. È “con” l’altro che si scopre pian piano che, nella vita, è tutto un andirivieni tra l’“io” che parla e il “tu” che ascolta nella speranza di colmare quella distanza che ci separa da noi stessi. La “con-divisione” è proprio questo: pensare e sentire “con” l’altro anche quando si è diversi, non la si pensa nello stesso modo, si agisce in modo differente. Anzi, proprio quando si è diversi, non la si pensa nello stesso modo, si agisce in modo differente.

Certo, il “con” non indica la necessità di essere sempre insieme e di non separarsi mai. Talvolta la distanza fisica serve anche a ritrovare la sintonia che si rischia invece di perdere quando non ci si allontana mai dall’altro. Il “con” indica piuttosto la condivisione di un progetto e la reciprocità di una fiducia che si fonda sull’autenticità. Non perché ci si possa fidare dell’altro al cento per cento. Nessuno è del tutto affidabile. Ma forza di condividere il presente, si finisce poi anche con il capire che vale sempre la pena di rischiare la propria fiducia quando l’altro si è abituato a tuo “essere così come sei”. La storia potrebbe anche finire un giorno. Ma resterebbe per sempre il ricordo di ciò che si è condiviso e che, pian piano, è diventato un pezzo di ciò che siamo.

Dalla mia rubrica su Vanity Fair del 5 marzo

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Il dramma del “fine vita” ci riguarda tutti…

Perché negare a chi è in fase terminale di una malattia incurabile il diritto di morire degnamente? Perché accanirsi a mantenere in vita chi, dalla vita, si è già progressivamente allontanato? Le polemiche che nascono ogniqualvolta si cerchi di affrontare in Italia il tema delle scelte di fine vita sono sempre molto ideologiche. Forse troppo. Soprattutto quando, dimenticandosi delle condizioni drammatiche in cui vivono oggi tanti malati terminali, si insiste a voler opporre tra loro i concetti di “dignità della persona” e “autonomia individuale”, riempiendosi così la bocca di parole che suonano bene – e che molto spesso ci fanno sentire in pace con la nostra coscienza – senza interrogarsi sul senso della vita, del dolore e della morte. Nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij scriveva: “Ama la vita più del senso, e anche il senso troverai”. Ma quando si è gravemente malati e non c’è più niente da fare, che senso ha invocare astrattamente il “valore inalienabile della vita? Quando si è detto esplicitamente che si desidera andarsene, in nome di cosa qualcun altro dovrebbe potersi arrogare il diritto di opporsi?

Certo, una delle caratteristiche della persona è proprio la dignità: quel valore intrinseco che possiede ogni essere umano e che lo differenzia dalle semplici cose che, come spiegava Kant, non hanno dignità, ma sempre e solo un “prezzo”. Ma proprio per questo, la vita dovrebbe poter essere vissuta in modo degno, anche e soprattutto quando si giunge alla fine, senza che nessun altro consideri legittimo imporci il proprio punto di vista e la propria concezione dell’esistenza. Ecco perché l’autonomia, nel nome della quale da anni si invoca il diritto all’autodeterminazione dei malati, non si oppone affatto al principio di dignità. Anzi. È solo un modo per rispettare la volontà di coloro che, nella sofferenza, chiedono di essere ascoltati, e quindi anche la loro dignità. Tanto più che difendere l’autodeterminazione dei pazienti non significa poi che i medici debbano venir meno alla propria vocazione, e abbandonare quindi i malati alla solitudine delle proprie scelte: per potersi veramente prendere cura di un’altra persona, un medico dovrebbe essere capace di adottare il punto di vista altrui, sapendo che la “cura del corpo” non può mai prescindere dalla consapevolezza delle sofferenze psichiche e morali legate ai mali fisici.

Il dramma del “fine vita” ci riguarda tutti. Anche semplicemente perché morire è una delle caratteristiche della condizione umana. La vita è mortale proprio “perché” è la vita, come scriveva il filosofo Hans Jonas. E un giorno o l’altro ci ritroveremo tutti lì, forse impotenti di fronte alle decisioni che altri vorranno prendere al posto nostro, cercando disperatamente di essere rispettati almeno un’ultima volta, soprattutto quando non c’è più niente da fare. La dignità della persona, che nessuno pretende negare o cancellare, consiste anche nell’avere il diritto di essere riconosciuti come soggetti della propria vita fino alla fine. Sapendo che il “valore inalienabile della vita”, spesso invocato da chi si oppone al fatto che in Italia si legiferi sulle scelte di fine vita, lo si rispetta anche quando si prende sul serio la parola di chi soffre.

Articolo pubblica su Repubblica del 19 marzo 2014

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L’amore è tutto? #5

C’è chi passa tutta la vita ad innamorarsi, ma poi non ama mai. Come una farfalla che passa da un fiore all’altro senza trovare pace. Perché dopo i primi momenti di entusiasmo, poi si stufa e cerca altrove. Un altrove sempre nuovo e luccicante dove raccogliere quell’energia del “tutto è possibile” che piace tanto agli innamorati-dipendenti. Prima di rendersi conto che di nuovo, in realtà, c’è ben poco. Mentre l’amore non ha nemmeno il tempo di “accadere”. Perché non ci si vuole abituare alla sua presenza. Non si ha alcuna voglia di costruire insieme la quotidianità. Ci si illude di non aver bisogno di condividere quel vuoto che ci si porta dentro.

Che cosa voglio dire? Facile. Anzi, banale. Visto che sto solo dicendo a modo mio quello che tanti, prima di me, hanno già detto, ossia che l’amore, con l’innamoramento, non c’entra proprio niente. Come sanno bene i francesi che parlano di “tomber amoureux” (“cadere innamorati”) quando inizia una passione, ma che poi non si sognerebbero mai di “cadere” quando raccontano l’amore che li lega a “l’être cher” (“la persona cara”). Il famoso “je t’aime” della canzoni e dei film arriva solo dopo. Pian piano. Quando “accade” la reciprocità del riconoscimento e la tolleranza progressiva dell’alterità altrui.

“Che fatica!”, mi dice sempre l’uomo che amo. Che ormai sa bene quanto io sia faticosa nella vita di tutti i giorni, talvolta proprio insopportabile. Esattamente come è faticoso lui, con tutte le sue manie e le sue ansie, le sue paure e le sue insoddisfazioni. Ma l’amore è anche questo. Ecco perché non si “cade” nell’amore, nonostante l’amore “accada” e non lo si possa controllare. Ed è solo attraverso la pazienza che si costruisce lentamente il “vivere-insieme”.

Certo, non è perché ci si sforza, che poi ci si sopporta. Questo lo pensano solo gli stacanovisti della vita di coppia. Nell’amore – che non è solo passione, ma non è nemmeno sacrificio o rinuncia – si verifica l’esatto contrario: ci si sopporta proprio perché ci si ama. E una persona la si comincia ad amare quando ci si rende conto che è con lei, e solo con lei, che si è liberi di essere se stessi. Anche quando facciamo il muso e sbuffiamo. E lui o lei, magari, escono per farsi un giro e tornano solo quando ci siamo calmati.

La fatica dell’amore è come la fatica della vita, quando ci si accorge che tutto è complicato e che non va bene quasi nulla. Ma si è anche consapevoli che non serve a niente sforzarsi e riempirsi la bocca di buoni propositi per risolvere i problemi, perché tante volte le cose non dipendono da noi e da quello che possiamo o meno fare. Anzi. Tante volte serve solo aspettare che la tempesta passi. Senza agitarsi. Esattamente come nell’amore. Quando si comincia a capire che le “tempeste” della persona che amiamo ci sono familiari. E che, anche se non possiamo fare niente per aiutarla, riusciamo ad aspettare insieme a lei che torni il sereno.

Ma questo accade solo quando si ama. Perché se siamo solo innamorati, le tempeste ci travolgono. Perché sforzarsi di sopportare qualcuno, quando si stava insieme solo perché tutto andava bene? Ma, forse, non andava bene proprio niente. Era solo una passione. Che cede il posto alla noia e all’intolleranza, prima di “tomber amoureux” di qualcun altro. A differenza dell’amore che non ci fa cadere e che attraversa le bufere. Che nella vita sono tante. Proprio come le nostre manie e le nostre insoddisfazioni. Con cui però si impara a convivere nel momento in cui sappiamo che “l’être cher” che ci è accanto ci ama come siamo.

Dalla mia rubrica su Vanity Fair del 26 febbraio

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